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Il profumo della morte, in memoria di Michele

Pubblichiamo il racconto di Salvatore Campo in memoria di Michele Lo Cricchio, balestratese recentemente scomparso.

Il profumo della morte

 Erano trascorsi quattro mesi dalla mia laurea. Avevo già prestato due mesi di servizio in un presidio cittadino della Croce Rossa Italiana ed ero in attesa dell’esame d’accesso alla Scuola di Specializzazione.

In quel caldo mese di luglio del 1975, ebbi l’incarico per un periodo d’interinato della Condotta Medica nel mio paese che, come tutti i paesi rivieraschi nel periodo estivo, stava vivendo la sua seconda identità in contrapposizione a quella invernale. Una metamorfosi che si rinnovava ogni anno e che trasformava un tranquillo e sonnacchioso paese, le cui dinamiche sociali erano suggerite dai rapporti umani più che dalle leggi, in un paese frenetico e fantasioso in cui i cinquemila residenti, minoritari, si sentivano “diversi” rispetto agli oltre ventimila villeggianti.  La diversità   trovava espressività soprattutto nel modo di porsi e di inventarsi l’arte dell’accoglienza nei confronti degli ospiti a cui i locali erano grati, in fin dei conti portavano una boccata di ossigeno all’economia stentata di quel centro agricolo-marinaro. Si faceva a gara nel rendere più belle le abitazioni, nell’arricchire di fiori i davanzali e i marciapiedi.

L’amministrazione comunale ci metteva tanta buona volontà e fantasia per accogliere gli ospiti. Il paesano pensava di essere “diverso” anche perché portatore di saperi “diversi” rispetto a chi veniva da lontano e al villeggiante cittadino ai quali offriva quanto poteva, con generosità ma anche con una riverenza che forse derivava da quella inflessione linguistica diversa, ritenuta sempre più bella e più armonica rispetto alla propria, che lo affascinava, rendendone il latore stesso il determinante della propria diversità. Le dinamiche sociali cambiavano; spesso erano i rapporti umani a dominare ma poteva capitare che si dovessero sostituire, nei migliori dei casi, con le regole.

La legge di Riforma Sanitaria 833/88 doveva ancora arrivare. In quel paese, il Medico Condotto doveva assistere alcune centinaia di iscritti nell’”elenco dei poveri” e assicurare la disponibilità verso tutti gli altri residenti, anche di notte e nei giorni festivi. Anche la moltitudine di ospiti che animavano il paese e le campagne circostanti, nella versione estiva, avevano un unico punto di riferimento sanitario, il Medico Condotto.  Era un Medico “solo”, con un vissuto di solitudine professionale, umana e geografica. L’ospedale più vicino era a venti minuti di macchina e un’ambulanza non arrivava prima di due ore dalla chiamata. La rete dell’emergenza-urgenza sarebbe sopravvenuta trent’anni dopo.  La preparazione, la formazione e le capacità reattive erano tutto per fronteggiare ciò che di sanitario potesse accadere a quella popolazione.

Con l’incarico di interinato, l’ansia del post-laurea di cominciare a lavorare era stata acchetata da un turbinio d’attività che m’impegnavano lasciando ben poco tempo per il riposo. Visite, vaccinazioni, ispezioni sanitarie, sorveglianza epidemiologica, certificati e altro erano un tutt’uno in una funzione professionale e sociale allo stesso tempo; una funzione secolare a cui tante generazioni del passato hanno reso un accorato tributo.

Sveglia alle 5,30, … treno per la città, … alle 7,30 Clinica Universitaria, … ritorno alle 14,30, … pasto veloce, … visite domiciliari, … ambulatorio nella sede della Condotta sino alle 20,00, … visite domiciliari e poi, chissà a che ora, ritorno a casa per la cena che mai segnava il confine tra il lavoro e il riposo notturno.

Ben presto ho acquisito la consapevolezza, anzi la certezza, che almeno 2-3 richieste di visite per notte erano la costante; il risveglio dopo la prima chiamata significava non prendere più sonno e, tra una visita e l’altra, mi dedicavo alla lettura; almeno, ne ha tratto beneficio il mio aggiornamento professionale “obbligatorio”.

Una notte di fine agosto, il campanello suonò per la prima volta alle quattro, i villeggianti erano andati in buona parte via. Fui svegliato da un suono continuo che si confondeva con un vocio indecifrabile che proveniva dalla strada e che mi mise ansia e mi spinse a indossare qualcosa e a scendere rapidamente le scale.

Davanti al portone d’ingresso, un uomo ed un ragazzino ansimanti continuavano a pronunciare frasi incomprensibili accompagnate da un frenetico gesticolare; non ho capito bene cosa fosse successo, forse la moglie, la madre del ragazzo, stava male, doveva trattarsi di qualcosa di grave; con la borsa da medico in mano mi sono messo dietro a quei due che già correvano a piedi davanti a me.

Dopo trecento metri entrarono, di botto, in una porta a piano terra e li seguii.

Nella camera da letto, distesa per terra, una donna di circa trenta anni giaceva supina; era in camicia da notte, con le membra afflosciate, i capelli bagnati e scomposti adagiati sul pavimento, il viso pallido e le labbra cianotiche; vicino la bocca e sul pavimento c’erano tracce di vomito. Nel mentre, in ginocchio, mi rendevo conto dell’assenza di segni vitali, ero assalito da un odore pungente che proveniva dalla camicia da notte. Alcune voci concitate riuscirono a conquistare la soglia della comprensibilità per comunicarmi che, qualche decina di minuti prima, il marito l’aveva vista alzarsi dal letto, tenendosi la testa e lamentandosi, dopo pochi passi aveva cominciato a barcollare e poi si era accasciata a terra senza più dar segni di vita. Il marito e i due figli si erano messi a gridare, accorsero i vicini di casa che avevano cercato di farla rinvenire versando abbondantemente un profumo sotto le narici e bagnandone abbondantemente la camicia da notte, mentre il marito e il figlio erano scappati via per andare a chiamare il medico.

Non c’era respiro, non c’era battito cardiaco, non c’era pressione sanguigna. In quegli istanti provai una sensazione che poi si sarebbe ripetuta, con sofferenza, in altre circostante della vita professionale. Era la sensazione dell’”attivazione al massimo”: le violente scariche d’adrenalina, scatenate dall’emergenza, creavano condizioni perché tutte le capacità fossero disponibili al meglio: in pochi istanti bisognava fare ciò che era meglio per il Paziente, tutto e subito, senza sbagliare, da solo e senza alcun aiuto. Massaggio cardiaco esterno, respirazione bocca a bocca, e poi… ancora e ancora e poi … iniezione intracardiaca d’adrenalina.

Saranno passati quindici o venti minuti, forse più; avrei voluto non fermarmi mai, abbandonare la rianimazione mi feriva, l’abbandono era una manifesta impotenza nel portare aiuto a quella giovane donna, era una resa e non avrei voluto arrendermi. Ma, non c’era più niente da fare, non c’era più respiro, né battito, nessun segno, era morta.

Quando andai via, in quella casa lasciai la disperazione; altri parenti e altri vicini di casa si erano aggiunti a quelli presenti. Imprevedibilità, incredulità e dolore. I lamenti mi accompagnavano mentre, lentamente e come un automa, facevo ritorno verso casa. Si era fatta l’ora per andare a prendere il treno per la città, feci rapidamente una doccia e presi un caffè che non servirono a svegliarmi da quel torpore in cui ero caduto.

Quella mattina, sul treno a occhi chiusi, ho rivisto tutto, il mio primo contatto da medico con la morte, l’affannosa ricerca d’una soluzione, l’impotenza, … la rabbia, la delusione, il compianto.

In quel viaggio di due ore, ogni tentativo di pensare ad altro è stato inutile. Dopo alcuni reiterati e compulsivi ripassi, mi resi conto che a riportare i pensieri sull’accaduto, al di là delle emozioni forti dei tragici fatti, era soprattutto l’odore di quel profumo versato sul volto e sulla camicia da notte di quella povera donna e che, nel corso delle manovre rianimatorie, avevo respirato. Non saprei descriverne analiticamente le componenti, forse era tenuemente acre, sapeva di zagara, quasi alcolico, pungente… Il mio cervello lo aveva registrato bene e archiviato indelebilmente.

Altre due volte nella mia vita ho rincontrato quel profumo, per caso, e sono piombato per ore in una profonda mestizia perché quello per me oramai era il profumo della morte.

A Michele,
a quel ragazzo che visse la morte della mamma e
che ne ha saputo trasferire sulla tela
il suo dolore e quella traccia indelebile che
ne ha improntato l’esistenza.

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